In questi giorni a Milano solo attraverso gli aeroporti sono arrivate oltre un milione di persone. Altrettante, probabilmente, sono arrivate via terra e lo spettacolo che offre di se questa città è straordinario. Le affollatissime metropolitane e i caratteristici tram del centro trasportano questa massa enorme di persone nei luoghi classici di Milano con musei, edifici storici e piazze travolti da questa gioiosa invasione. Due ore di fila per accedere al castello sforzesco, altrettante per lo spettacolare duomo gotico che è il simbolo della città, un po’ meno, ma 20 minuti ci vogliono in ogni caso, per visitare il Museo teatrale della Scala e ripercorrere i 200 anni di storia di una delle più importanti istituzioni musicali al mondo. Le guglie del duomo gotico, la Madunina e diverse migliaia di persone che già sciamano nella piazza, accolgono il visitatore che emerge dalla stazione della Metropolitana M3. Attraversare prima la piazza e poi la galleria Vittorio Emanuele II non è agevole. La folla letteralmente ti trascina e stabilire una direzione coerente non è facile. Si cammina quasi di “bolina” ma la cosa bella è che in giro, almeno oggi, non si vedono le facce tristi e incavolate di tutti i giorni. Chissà, forse è proprio vero che Milano mette di buon umore ! Piazza della Scala sulla quale emergi al termine della galleria è una “invenzione” urbanistica relativamente recente, realizzata poco dopo la metà dell’800 demolendo un buon numero di edifici della vecchia contrada. Lo spazio è suggestivo: il teatro e Palazzo Marino sede municipale della città si fronteggiano ai due lati della piazza che fu completata da Palazzo Beltrami agli inizi del XX secolo. La statua di Leonardo da Vinci, immigrato di lusso nella Milano sforzesca, osserva dall’alto. Un altro convitato di pietra, Giulio Ricordi, sorveglia il museo teatrale al quale si si accede attraverso un’ entrata posta sul lato sinistro del celebre porticato. Il “rosso Scala” è il colore dominante degli ambienti del museo, in perfetta sincronia cromatica con quello del teatro. Un paio di strette rampe di scale abbellite con locandine d’epoca conducono negli ampi e luminosi locali del “Ridotto Toscanini” dove gli spettatori si intrattengono nel corso degli spettacoli. La storia di questo teatro è legata indissolubilmente a quella del Maestro Toscanini che con la sua direzione ventennale lo ha trasformato nell’istitutuzione che conosciamo. Dopo il suo esilio americano lo storico concerto da lui diretto l’11 maggio 1946 segnò la rinascita del teatro, andato distrutto durante la guerra e idealmente quello dell’intera nazione. Il busto del Maestro domina questo spazio dal quale si accede ai palchi. Alcuni sono aperti ai visitatori che si alternano nella visione dall’alto della grande sala e dell’immenso palco dove lavorano un coreografo col suo corpo di ballo. L’illuminazione è ridotta all’essenziale, il rosso porpora e le finiture dorate non risaltano come durante gli spettacoli ma la suggestione rimane intatta e vorresti rimanere li, a guardare quall’ovale a dispetto degli addetti che con uno sguardo benevolo ti osservano mentre ti fai la foto rituale col palco in sottofondo e allo stesso tempo ti invitano a far posto agli altri visitatori. Per molti anni, almeno fino all’avvento di Toscanini, quello del teatro era una specie di mondo parallelo, dove con la scusa dell’opera avveniva di tutto. Trame politiche, sentimentali, finanziarie erano all’ordine del giorno. Le autorità di polizia austriache tenevano discretamente d’occhio alcuni loggioni che ospitavano “sovversivi” indipendentisti italiani, mentre le cronache (e gli inserti multimediali che accompagnano il visitatore) ci raccontano di un giovanotto, tale Alessandro Manzoni, che si recava a teatro per giocare d’azzardo. Percorrendo gli spazi museali ascolti voci in tutte le lingue: un signore spagnolo descrive entusiasta il pianoforte suonato da Franz Liszt mentre una visitatrice in hijab osserva interessatissima uno spartito autografo di Giacomo Puccini. Incredibile la popolarità all’estero di Gioacchino Rossini il cui busto è uno dei più gettonati per i selfie. In questo piccolo spaccato di umanità ci si rende davvero conto come l’opera lirica sia qualcosa di veramente universale, un linguaggio comune per tantissime persone alle quali non occorrono parole per comunicare, basta uno sguardo davanti a una locandina della Turandot e non c’è bisogno d’altro. I melomani navigati sanno bene che il rapporto tra Giuseppe Verdi e la Scala non fu dei più facili, ma alla fine anche questo binomio risultò vincente: Verdi fece grande la Scala e viceversa. A ricordare questa grande figura di italiano il museo ospita ritratti, busti, autografi e una spinetta utilizzata dal maestro nelle prove che invisitatori accarezzano con lo sguardo in religioso silenzio. Un altro binomio indissolubile è quello tra la Scala e Maria Callas. E’ in questo teatro infatti che la cantante greca è divantata un mito. Il periodo scaligero della Callas va dal 1950 al 1961. In questo decennio grazie alla vitalità culturale milanese e alle collaborazioni con presonaggi del calibro di Luchino Visconti, Franzo, Zeffirelli, Nicola Benois e Tullio Serafin, Maria Callas è diventato il personaggio globale e immortale che conosciamo. Ovviamente il museo da un grande rilievo anche alla sua figura con ritratti d’autore e numeri cimeli che la ricordano. Nel 2017, ricorrendo i 40 anni dalla sua scomparsa, il museo le dedicò una curatissima ed apprezzata mostra. Il tour del museo è un immergersi in atmosfere d’altri tempi, quando le hit del momento erano le cavaltine e le cabalette d’opera i cui testi erano diffusi attraverso semplici opuscoli, quando l’opera non era considerata musica “colta” o difficile e le tifoserie dei vari cantanti o autori si azzuffavano per una stecca o una messinscena non gradita, quando i veri esperti non sedevano in platea me nei loggioni, pronti a stroncare senza appello una esibizione o un’opera ritenuta non all’altezza. L’opera lirica ha contribuito a formare l’identità culturale e linguistica della nazione e può essere tranquillamente associata al lavoro svolto da Dante e Manzoni. A questa nobile tradizione di cultura nobilmente nazional popolare dovremmo sempre fare riferimento.